Bisogni d’espressione

Sto diventando molto meno schizzinosa su certi aspetti concernenti il mio corpo e la corporalità in generale, cose come la cacca, quando arriva ed è sciolta o rimane nel water incrostata, il vomito che puzza, la pipì sulla tavoletta della tazza, il cerume sul cottonfioc, il muco che mi esce dal naso, ecc, ecc. Ho sempre vissuto questi aspetti con un po’ di disgusto e ostilità. Il vomito in particolare, solo in pensiero per anni mi ha fatto trascrivere e firmare un patto con me stessa per il quale mi impegnavo con estrema attenzione a non vomitare mai e poi mai più!. Certamente anche per il dolore connesso, ma soprattutto per la visione della poltiglia galleggiante nella tazza, alle volte schiaffata per terra, sull’asfalto, o sulle scarpe di una povera tizia che siede sul pullman accanto a te, o su un tappeto che ne sarà marchiato molto più a lungo del tuo ricordo. Ad oggi sento la ‘schifezza’ il ‘disgusto’ anche il ‘distacco’ togliersi di mezzo per un più appropriato riconoscimento fisico, biologico. Parti di me e di noi umani tutti che servono al grande funzionamento della macchina che siamo. Per quale motivo restarne tanto sconcertati e allibiti? E’ il mito della pulizia ostentata, della perfezione cronica, della gabbia artificiale nella quale affiliamo le nostre dita e mettiamo lo smalto, che ci porta a un così grande, profondo e radicato rigurgito per ciò che produciamo, quando lo vediamo come uno scarto?
Scarto che è concime, che si inserisce all’interno della logica degli accadimenti per ben specifici equilibri e condizioni. Fare la cacca è necessario. Perché guardare all’ammasso evacuato solo con l’ansia di seppellirlo e spurgarlo lontano dalla vista nel moto del risciacquo?
Non sono qui a dire che dovremmo fare chissà che cosa con questi nostri ‘bisogni fisiologici’ con queste parti di noi in frammenti, sicuramente esteticamente non belle e splendenti, ma almeno non demonizzarle, cercando di ristabilire un’affinità personale, una corrispondenza di giusta misura.

Sì, un riconoscersi nelle feci che faccio, nella saliva che sputo, nella pipì che a volte trattengo e magari con qualche goccia disperdo nelle mutande che indosso. Liquidi, solidi che sono alla base dei nostri processi alchemici essenziali per muoverci sulle nostre zampe su questo pianeta. Non dico che dovrebbero essere innalzati come monumenti delle nostre fattezze, come idoli di venerazioni o reliquie sacre, ma accolti nella loro franca produzione come affini alla nostra opera intera. Non siamo altro che Terra, terra e polvere di stelle, unita insieme. Ma dalla Terra veniamo e alla Terra torneremo e il nostro corpo avrà a che fare con esaltazioni e contorcimenti del suo stato e del suo assetto ben oltre la nostra coscienziosità in esso. Certi fenomeni sono elementi, risposte, stimoli di un corpo vivo, un corpo che rivela se stesso anche nell’assetto, nella forma, nell’odore, nella frequenza. Sono indizi del nostro momento personale, di ciò che stiamo seminando, facendo, sbagliando, processando.
Ora, è un pensiero del cazzo, oppure proprio un pensiero di merda, ma è un pensiero sincero e anche sentito.
Ho provato per molto tempo ribrezzo attorno a certe questioni, anche in relazione a compiti che dovevo sbrigare per assolvere a certi incidenti e molto ho avuto da ridire con la situazione disposta e con la necessità della mia interazione, avessi potuto semplicemente tirare la catena, come si suol dire. Ad oggi sento quel sentimento svanire, come sostituito da una certa forma di compassione umile verso ciò che il corpo ha bisogno e diritto di fare per esistere e di far esistere.
Ed è bello scorgere anche in certi incidenti l’imperfezione di questo corpo, che posso abitare per come è senza giudicarlo come se ci fosse sempre qualcuno da fuori pronto a vederlo ‘giusto’ o ‘sbagliato’ e nel caso schifarlo a sua volta.
Viva il culo e ciò che produce, viva la bocca che mangia e a volte espelle, viva le pete che sono così liberatorie e la pipì che felice com’è di essere molto simile all’acqua esonda dalle tazze come fosse olio su tela, viva il fatto che possiamo pulirla e ricreare l’armonia nei luoghi che viviamo per gli altri. Che quello schizzo sia solo nostro, lì per noi, per nutrire un interazione tra il corpo biologico che provvede al suo continuo sulla ripida via in salita e il dato che lascia andare alle sue spalle, l’oggetto fenomenico che porta con sé informazioni che mi hanno attraversato e che posso lasciare andare senza che mi disgusti il fatto che tutto ciò che faccio produce in un modo o nell’altro qualcosa di nuovo.
In grazia al mio corpo santo che è tutto ciò che di più sacro conosco.
Amen.

(Lo chiamiamo rifiuto perché ci rifiutiamo di pensarla in questo modo?)
(Come poter giurare amore eterno a qualcuno se non riesco a convivere con certi stati di me stesso?)


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