Eppure scappo dallo scrivere come se fosse la cosa in cui sono la migliore.
Sono così brava a sviare tra incombenze, impegni e imprevisti per far tutto ma proprio tutto tranne il concedermi a questo spazio, al mio gesto quotidiano, al mio paradiso interno, che processo e struggo nella mente, che tiene a mente le cose, ma che in nessun modo tiro fuori, riversando quei pensieri in colate di colore, tra il nero del pc o il blu della penna. Chiedersi perché è scontato, stare in ascolto di tutto ciò che si muove furtivo in questo compito, che io chiamo ‘la mia corsa affannata alle cose altre e di altri’ , nel suo atto, ha qualcosa di più radicato e anche comprensivo, complessivo. Mi ritrovo, lo capisco, l’ho ben chiaro. E’ questa fame di mondo voglia di mondo bisogno di mondo che è sempre lì in agguanto e proprio schiva, ha paura, teme, l’immobilismo sulla sedia, la concentrazione nella pancia per tenere la schiena dritta e i passi che balbettano sulla tastiera. Si muovono le dita per le loro camminate, fameliche di avventure, fanno tacere i piedi, incollati a terra, senza il peso della stazza, si contorcono in varie forme geometriche con le ginocchia per non crepare (nel senso di aspettare, stare nella quiete).
Quando lo faccio, e me lo consento (e anche solo questa visione, delle mie mani in movimento al posto dei piedi mi accende) mi accendo e mi ritrovo e godo ed è come fluire, stare nel luogo giusto al giusto posto e il resto far tacere, far tacere il resto senza fine, stare solo nel flusso del corso delle cose che hanno corso nello stesso mio senso e direzione. Non so come spiegarlo, è come un brivido di piacere che si innalza sulla pelle, che ricopre tutto il corpo e il suo spessore come un campo elettromagnetico, un fremito libero, acceso, e velato che è piacere e dà piacere, come fonte del piacere stesso, ritrovato, dilagato, ma anche ben tenuto così da diffondersi come un piccolo lume, un piccolo faro.
Avete presente la candela quando accesa, senza alcuna flebile brezza che la depisti o la spinga, rimane muta e mostra la sua aureola così perfetta, a lei avvolta, da parere la forma ideale, idilliaca di ciò che può definirsi una sfera?
Ecco, mi vesto di questo stato quando scrivo, è qualcosa che accade perché in un tacito e contorto e imprevedibile modo io l’ho scelto e allora accade, accade di gusto e sono un sapore roseo che si concentra dentro il suo respiro e il moto, a spasso con il pensiero descrittivo e lo sguardo acceso tra il dentro e il fuori, tra ciò che si è appena detto e ciò verso cui si è spostati, l’attesa e la visione, l’incastro della materia che compie questa azione mentale nella comprensione dei muscoli e dei sentimenti chiamati in ascolto, come piante e vegetali nei miei vasi, attorno alla scrivania.
Non saprei dire, ci provo ed è come guardare qualcosa di piccolo dentro un corridoio buio, un pozzo profondo nel quale si staglia a mezzombra una figura contorta dal bordo un poco illuminato che tu non capisci se sia un gatto, un umano, un mostro o un gioco soltanto delle mura e del cemento. E ti perdi e rincorri e resti e guardi come se non potessi mai sapere fino in fondo se ciò che pensi sia vero. Ma questo si sa, cos’è il vero poi?
La spinta alla fine, e il suo senso e il risultato, sta solo nel processo di se stessa, la vista aguzza che scruta, nessun altra cosa importa. E’ questa la danza. E tutto è ricerca, la vita stessa, io stessa, ogni mio passo dalla mattina alla sera. Anche la scrittura a quale altra prospettiva?
E sedersi e allora chiedersi, dovrei scrivere romanzi interi? Per avere il coraggio di guardarmi e scoprirmi? Ed ecco che sento sedere al mio fianco – o dentro di me – un’immagine più matura, una donna garbata, bella, solida, impassibile di natura e struttura, resa, ferma e tesa, ma in maniera sciolta, senza tensione nelle gabbia toracica o nel suo respiro di carta. Lei incastra, dirama può scrivere storie da mille una notte e oltre, il suo respiro e il suo peso ricorda quello della peste delle insonnie di Marquez. La sento e la guardo ammirata, ma ho paura della sua forza. Ne sono all’altezza? Allora mi chiedo: voglio inoltrarmi fino a certe vie?
Voglio sedere sulle sue spalle? Voglio essere profondamente giunta e legata al suo nome alla sua forma al suo cuore incastonato in una pietra, custodito in una roccia, vicino a una sorgente impavida che si materializza come cascata da cui orsi e lepri e cervi traggono giovamento e godimento per i loro salti? Voglio essere lei? Voglio dire addio a ciò che sono sempre stata lontana da questo riflesso, anche se nel mio stesso cancellarlo e rifiutarlo l’ho coltivato e brandito gelosamente nel cassetto del letto accanto a me, come un fuoco in sospeso, eppure pronto per essere utilizzato?
Ho paura di morire dentro lei e perdere tante cose che potrebbero essere gemme e stelle e castagne tra quelle acque. Ho paura di invecchiare più velocemente e ritrovarmi un viso di rughe se imparassi a rispettare il suo volere.
Mi sento così lontana da lei nella mia confusione caotica, questa voglia di mondo, fame di mondo, bisogno di mondo, lei lo coltiva dentro di sé, non si lascia andare alla presa folle e desolata delle cose, le raccoglie e raccatta dolcemente dentro la sua piega.
Mi fa paura, ma io voglio andare alla sua caccia, alla sua ricerca, voglio professare il matrimonio tra la nostra carne bruna e pallida, i nostri piedi di cristallo vittime della terra, le sue mani da camomilla con le mie da contadina…
Persefone nei cicli della sua annata, gli inferi della terra, l’abbraccio della mamma.
Solo ricongiunta a te io posso divenir donna.
E seguo il treno che prosegue lungo la sua galleria
seguo il treno che rimanda echi di rotaia nella grotta di una montagna aperta
seguo la sua prospettiva e divengo la sua velocità,
muto ogni carezza, ogni lacrima
muto la pelle, la schiena
riaffiora una fotografia dalla madia di mia nonna
un album di famiglia di visi che non mi ricordano nulla
eppure la loro storia a me così vicina
cucita nella schiena vertebra su vertebra come fosse una profezia
posso divenire donna, essere adulta, prendendo sotto spalla
tutto il tesoro di ogni cosa morta e riconsegnarla in vita
impastando profondamente le mie dita a questa stanza che mi resta
questo spazio nel mio petto questo martello del mio cuore
scrivere lì una parola che si nutra
che rifiorisca dalle macerie fino all’altura
l’unico capezzale della mia chiesa la mia voglia di essere libera e tesa
Incontrarmi con me stessa.
Tu che parli, parli, parli e io non ti ascolto
ti faccio passare in osservata tra le cose del mondo
e tu avresti tesori grandi risposte vere e voraci
ritorni dei più profondi misteri
sguardi che han visto cose che non si possono vedere
e le sapresti a me raccontare, le faresti entrare nella mia pelle
nel suo spessore, le potrei vivere così da sapere
e già accade, con le poche briciole che ti do modo di disperdere
se ti potessi, invece, amare
e di te fidare, così tanto ciecamente
come di quell’uomo che mi portava sulle montagne…
tutto questo voglio umanamente
tutto questo voglio umanamente
e il resto come cascata a bagnare questa terra infetta
che di lacrime, nostre, della nostra – saggezza dispersa,
bisogna
ne ha bisogno la terra nostra
fede altra non mi attraversa.
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